Le Chiese

di Livorno Ferraris

CHIESA PREPOSITURALE DI SAN LORENZO


Della prima chiesa plebanale poco o nulla si sa, né dove fosse ubicata. È comunque pensabile che con la formazione del borgo franco accanto alle nuove costruzioni degli inurbati, alla piazza mercatale, alle botteghe artigiane e commerciali, ai pozzi e ai forni pubblici, alla casa podestarile e alla sede della Credenza anche una nuova chiesa parrocchiale possa essere stata edificata all'interno della cerchia muraria, dove potevano essere svolte le funzioni e dove si potevano amministrare i sacramenti.

            Il prevosto Castelli nel formare lo Stato de benefici e Capellanie compilato nel maggio 1762 riportò: « Parochiale di Livorno sotto il titolo di S. Lorenzo Martire la di cui solennità cade li 10 del mese d'Agosto. Di Libera Collazione. In qual tempo sia stata la med[esim]a eretta, stante la sua antichità, non ritrovasi alcun documento, ne in scritti, ne di Tradizione». Notizia confermata dal Nicolina che riportò al cap. 7° del suo pregevole manoscritto:«...Chiesa Parrochiale di S. Lorenzo fabbricata sul monte di S. Lorenzo come ora si chiama secondo un disegno antico. L'anno di cotesta erezione non trassi, se non che molto probabilmente da un milesimo ivi segnato cioè 1314».Il 1314 fu un anno particolarmente intenso di avvenimenti; alla stessa data infatti si registrò la necessità del marchese Teodoro di servirsi della cernea servientum per consolidare le fortificazioni del borgo di Livorno Ferraris appena conquistato; non è da disdegnare quindi l'ipotesi che l'andirivieni di cotanti laborerium impegnati nei lavori civili possa aver dato origine non certo all'erezione ma a una probabile ristrutturazione del sacro edificio, come peraltro testimoniato dal millesimo murato.

            La configurazione architettonica della vecchia parrocchiale la si può desumere dalla relazione di visita pastorale del vescovo Aldegatto del 23 giugno 1568 completata dalla restituzione grafica del rilievo dell'architetto Giuseppe Castelli del 24 aprile 1772, necessario alla proposta progettuale per la nuova Parrocchiale.

            La chiesa come oggi si vede è quindi settecentesca.

            Il 17 maggio 1728 il Consiglio Comunale diede incarico ai sindaci di procurare un progetto di qualche ingegnere: l'incarico cadde sull'architetto Carlo Antonio Castelli, da cinque anni residente in paese, che pur mantenendo parte della vetusta chiesa ne previde l'ampliamento rivoltandone l'ingresso come già fece qualche anno prima per la parrocchiale di Racconigi. La chiesa fu ultimata nel 1778, dopo che i lavori furono sospesi per circa cinquantanni a causa di carenza di mezzi e ripresi solo nel 1772 dal fratello Giuseppe Castelli e portati a termine dal figlio di quest'ultimo Filippo, pur esso architetto che ne progettò la facciata in stile neoclassico e gli altari interni.

            La grandiosità della chiesa, terza per volumetria dell'arcidiocesi vercellese, testimonia l'operosità dei Livornesi che hanno partecipato in supporto agli artigiani impegnati nel cantiere procurando l'argilla dei loro campi per la formazione dei mattoni e fornendo il legname necessario, frutto della campagna boschiva livornese, per le impalcature e l'orditura del tetto; ma anche con gratuite elargizioni: per queste ultime sono da ricordare il conte Giovanni Alberto Perucca della Rocchetta e suo figlio Lodovico Ignazio, veri mecenati ricordati con due lapidi poste nell'atrio.

            La facciata, ornata da quattro colonne lapidee a fusto liscio con capitelli corinzi sorreggenti un frontone triangolare, è affiancata dalla torre campanaria che si eleva a 55 metri d'altezza ed è l'unica traccia superstite della vetusta chiesa che conserva nella parte bassa ricche modanature gotiche ad archetti pensili oltre a un'interessante monofora.

            L'interno è a croce latina a navata unica con quattro cappelle laterali oltre a due altari nel transetto separata dal presbiterio, leggermente rialzato, da una sinuosa balaustra marmorea.

            Le cappelle laterali partendo dal piedicroce sono provviste ognuna di altare proprio, per cui troviamo in cornu evangelii: altare dell'Angelo già di patronato della famiglia Tarachia de Jordanis con quadro ovale di Giuseppe Galimberti (attribuito) raffigurante “Dio Padre, Tobiolo a l'arcangelo Raffaele”; altare dell'Immacolata di patronato della Comunità con statua lignea settecentesca della Vergine: sotto la nicchia della Madonna vi è l'urna contenente il corpo santo del martire Clemente; in cornu epistolae troviamo: altare di Sant'Isidoro di patronato della Società degli Agricoltori con ovale accademico raffigurante il Santo e la statua in gesso del Sacro Cuore a cui è appoggiata la devozione dell'Apostolato della Preghiera; a seguire vi è l'altare del Crocifisso con pregevole scultura lignea del XVI secolo del Cristo in Croce. Gli altari del transetto sono dedicati: alla Madonna del Rosario (lato vangelo) con grande tela accademica contornata da 15 formelle in stucco raffiguranti i misteri del Rosario opera del Fizzotti come le statue in gesso di San Domenico e Santa Caterina; e alle Anime purganti (lato epistola) con un bel quadro del luganese Domenico Cattaneo (1823) raffigurante la “Deposizione di Gesù” e due statue in gesso ai lati dell'altare raffiguranti Re David e il profeta Isaia. Distribuite sulle pareti laterali vi sono le stazioni della Via Crucis attribuita al pittore Carlo Gorzio, in fase di restauro e lo splendido Pulpito come pure due confessionali dello scultore eporediese Giuseppe Argentero (1777).

            Nel presbiterio, su cui si affacciano le cantorie lignee, troneggia il superbo altare marmoreo progettato dall'architetto Filippo Castelli; nella cantoria lato vangelo trova posto il sublime organo Serassi (1777)-Collino (1865) di recente restaurato, mentre dietro l'altare è ubicato il coro ligneo su disegno dell'architetto Ludovico Trosselli (1798). In alta sulla parete absidale campeggia la grande tela ovale di Bernardino Galliari raffigurante il “Martirio di San Lorenzo” consimile alla tela coeva dello stesso autore per la parrocchiale di Andorno Micca; i grandi finestroni del coro sono chiusi da vetrate policrome raffiguranti la “Vergine Immacolata” opera di Antonio Siletti e “San Giuseppe” opera di Lodovico Pizzoli, entrambe datate 1939.

            Ai lati del presbiterio vi sono due sacrestie: la prima è utilizzata oltre che per le vestizioni del celebrante e dei chierichetti anche come cappella invernale, data la presenza dell'altare superstite della vetusta chiesa dedicato alla Madonna del Rosario, contornato da due colonne tortili che inglobano una tela moncalvesca del Seicento con tanto di nicchia contenente la statua lignea della Vergine; vi sono inoltre diversi reliquiari lignei di Santi, il reliquiario argenteo della Santa Croce nonché la statua in lamina d'argento sbalzato e cesellato di San Lorenzo poggiata su un reliquiario in cassa d'ebano, opera di argentiere romano di fine secolo XVII. La seconda sacrestia è adibita a museo parrocchiale con tele del Moncalvo (Matrimonio mistico di Santa Caterina; Presentazione di Maria al Tempio; Fuga in Egitto), Bartolomeo Caravolia (Decollazione del Battista), Giacomo Antonio Lisca (Madonna dei Gerbidi) e altri ancora, oltre a statue lignee dorate (Sant'Agostino e Santa Monica) di fine XVI secolo; un ostensorio ambrosiano del 1561, due ostensori romani del XVIII secolo oltre a paramentali diversi, messali, salterii e altri articoli religiosi.   
                                                  Giovanni Franco Giuliano

CHIESA DI SAN GIOVANNI DECOLLATO DELL’ARCICONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA

Posta sulla piazza di fronte al monumento a Galileo Ferraris è stata recentemente oggetto di restauro conservativo esterno e necessita ancora di un adeguato restauro interno per ridarle una giusta funzionalità.

        La confraternita della Buona Morte o della Misericordia, i cui confratelli vestivano il sacco nero, fu eretta nel 1608 mentre la chiesa risale al 1660 in esecuzione di un voto fatto nel 1622 alla Madonna del Carmine per lo scampato pericolo della peste.

        La sua costruzione è quindi la testimonianza di un periodo di rinascita magistralmente espresso nella facciata barocca, dalla sinuosità anticonformistica e magniloquente.

        L’interno, al momento spoglio, è ad aula unica con sei altari laterali e matroneo al primo piano, esposto su tre lati; in origine la chiesa era la galleria delle famiglie notabili del paese, che avevano il patronato sul proprio altare.

        In cornu epistolae (parte destra) entrando:

* altare di Sant’Anna della famiglia Garrone (in seguito Perucca della Rocchetta) con dipinto di Orsola Caccia raffigurante la Vergine del Carmine con il Bambino e Sant’Anna e in basso i santi Alberto e Caterina d’Alessandria;

* altare della Madonna del Carmine proprio della confraternita con statua della Vergine entrostante un’ancona lignea barocca e sottostante paliotto in scagliola policroma, opera di Pietro Solari del 1738;

* altare dell’Angelo Custode della famiglia Tarachia.

          In cornu evangelii (parte sinistra) entrando:

* altare dell’Immacolata Concezione della famiglia Garrone (in seguito Caresana) con un quadro commissionato nel 1680 raffigurante la “Vergine, Santa Maria Maddalena de’ Pazzi e San Filippo Neri”: all’altare è congiunta la Compagnia delle Umiliate;

* altare di san Giovanni Decollato, proprio della confraternita con quadro della “Decollazione di San Giovanni” entrostante ad un’ancona lignea barocca e sottostante paliotto di Pietro Solari e bottega del 1728: la pala d’altare è opera, datata (1686) e firmata, di Bartolomeo Caravoglia, di chiare origini livornesi (vedi foto);

* altare del Crocifisso o della Madonna Addolorata, della famiglia Guaita: sull’altare tela raffigurante “Crocifissione di Gesù”, opera datata (1676) e firmata da Bartolomeo Caravoglia.

          Dietro l’altare maggiore campeggia il grande quadro della “Deposizione di Cristo”, copia ottocentesca di dipinto antico, con sovrastante altorilievo ligneo di Dio Padre benedicente e sottostante nicchia con urna ripiena di reliquie di Santi, benedetta con il titolo di San Giovanni Battista, portata da Roma nel XVIII dal priore don Giuseppe Vallaro.  Ultimamente la chiesa viene utilizzata come sede di mostre.

                                     Giovanni Franco Giuliano

SANTA MARIA D'ISANA



La chiesa d'Isana, gioiello medievale in terra di Livorno Ferraris, non si sa, con precisa certezza, quando sia stata costruita. E' comunque certo e fuor di dubbio, data la tipologia architettonica sopravvissuta sino ai nostri giorni, che si possa ascrivere tra gli edifici religiosi edificati nel XII secolo. Il piccolo Santuario intitolato a Santa Maria, oggi adagiato in mezzo alle risaie livornesi ma un tempo nel fitto di una boscaglia millenaria, risale approssimativamente alla seconda metà del XII secolo come chiesa pertinenziale della locale mansione templare; vale a dire al periodo di prima espansione dell'Ordine del Tempio in Piemonte e risulta tra l'altro essere l'unica testimonianza templare di tale periodo tuttora esistente in territorio regionale.

        Non ci è dato modo invece di sapere se Isana sia stata una mansione autonoma oppure una dipendenza rurale della vercellese San Giacomo d'Albareto; come mansione templare è citata per la prima volta in un documento del 29 agosto 1208 con il quale Villano, figlio di Iozino di Livorno, a nome proprio e per conto dello zio Marino, promette di non molestare il monastero di Santa Maria della Rocca (Rocca delle Donne) per le terre, da loro possedute, ricevute in diritto di enfiteusi dallo stesso monastero. Una seconda citazione è nel noto documento, redatto in Vercelli il 15 settembre 1222, per cui frate Giovanni Lombardo, gran precettore di tutte le case del Tempio in Italia, nomina suo Nunzio e Procuratore frate Jacopo de Mellacio, affidandogli l'incarico di rappresentare e di tutelare gli interessi delle mansioni templari di San Giacomo d'Albareto (Vercelli), di Santa Maria di Novara, di Santa Maria d'Ysana, di Santa Maria di Ruspaglia (San Giusto Canavese) e di San Nazario d'Ivrea.

        La chiesa è costituita da un'unica piccola aula orientata con abside ora quadrata ma presumibilmente semicircolare in origine se non addirittura assente; rilevata in sito presenta in pianta metri 7,80 di larghezza compresi i contrafforti e metri 12,80 di lunghezza misurati a partire dalla lesena di facciata a tutto il contrafforte del campanile, a cui vanno aggiunti metri 3,80 dell'abside originaria ora incorporata nel fabbricato aggiuntivo. La struttura dell'edificio risente dell'influsso architettonico romanico del Monferrato e presenta una tecnica edificatoria a conci alterni di pietra e mattoni nell'ossatura ascendente tamponata da laterizio posato a spina di pesce; analogie costruttive, come la bifora della facciata con capitello a gruccia poggiante su esile colonnina e archivolto con alternanza di conci, si riscontrano in ambito vercellese solo con la chiesa di San Bernardo, che data con certezza al 1163-64 e ci invita, pur con i dubbi derivati dalla carenza documentaria, a ipotizzare una consimile datazione, sempre che non prevalga l'ipotesi di una struttura preesistente riadattata per le pratiche devozionali.

        La facciata principale nel suo insieme è ancora ben conservata, anche se nel tempo ha subito modifiche per fortuna non sostanziali. Infatti la parte bassa non è del tutto leggibile in quanto compromessa da intonaco cementizio steso a raso mentre la parte superiore presenta una partitura muraria a opus mixtum costituita da mattoni nuovi e laterizi di recupero posati secondo la tecnica a spina di pesce, incorniciati da due lesene angolari. Ai margini della linea superiore dell'intonaco, ai lati del portale d'entrata e a un'altezza di circa 4 metri, traspare la traccia arcuata di due possibili monofore occluse e sostituite da due piccole finestrelle quadrate, garantite da grate in ferro; l'elegante bifora centrale non ha invece subito modifiche e si presenta in tutto il suo splendore originale, nel più puro stile romanico. Di concerto la facciata sud, suddivisa da due esili lesene in tre campiture, ha subito nel tempo ferite non sanabili. Le due originarie monofore strombate sono state occluse e sostituite da due finestre rettangolari che purtroppo hanno interrotto la cornice originaria di archetti pensili: sette archetti per campitura, rimasti integri nella sola campitura mediana. Ancora ben conservata la porticina dei fedeli che, pur parzialmente compromessa nella parte bassa dall'intonaco (steso per tutta la lunghezza della parete sino ad una altezza di metri 2,00), presenta in bella vista l'arco a tutto sesto con centinatura a conci in pietra alternati a laterizio. La facciata nord presenta un'identica struttura muraria e mantiene integra, nella parete libera dall'aggiunta costruttiva ad uso rurale, la cornice primitiva ad archetti rampanti. Un esile campanile è stato ricavato nella congiunzione tra la navata dei fedeli e il corpo quadrangolare aggiunto destinato a presbiterio e coro retrostante. In realtà non è una vera e propria torre campanaria bensì un semplice abitacolo per la campanella fuoriuscente dal tetto: è costituito da due pilastrini coperti da un tettuccio realizzati sulla prosecuzione della lesena sud-est.

                                                Giovanni Franco Giuliano

Chiesa conventuale di Santa Maria delle Grazie

Il Complesso Monumentale di Sant’Agostino, edificato sul passaggio di Francia e oltra monti in Lombardia, rappresenta un unicum nel panorama artistico architettonico livornese e costituisce altresì una delle maggiori e più affascinanti testimonianze cinquecentesche del territorio.

            Fu espressamente voluto dal livornese padre Clemente Fera, più Vicario Generale in Roma dell'Ordine Agostiniano Congregazione di Lombardia; nel primo anno del suo terzo mandato acquistò il terreno adiacente la proprietà paterna e fondò il nuovo Convento con annessa la chiesa di Santa Maria delle Grazie. Nel chiostro una lapide ne ricorda i meriti.

            Il chiostro conventuale, che ha visto nel recente passato scorribandare intere generazioni di scolari, si presenta come un quadrilatero irregolare innalzato su 18 colonne e quattro pilastri angolari, analogo a conventi agostiniani coevi realizzati nel nord Italia da maestranze lombarde eredi dei maestri comacini. Si intravede infatti e in dimensioni ridotte una certa somiglianza stilistica con il chiostro del convento milanese di Santa Maria Coronata dove il nostro padre Clemente organizzò il XXV Capitolo di Milano.

            Si conoscono alcuni nomi degli artigiani attivi nella costruzione di chiesa e convento:

- Giovanni Paolo Cataneo e Gerolamo del Chrippa, mastri da muro, di chiara origine lombarda;

oltre ai locali:

- mastro Agostino (Parolio ?), che il primo luglio 1593 fu pagato dagli Agostiniani «p. intoligar tutta la Chieza ta[n]to di dentro come di fora acituando la faciata co[n] tutto il canpanile et jn bianchirla tutta co[n] il Ca[m]panil».

- messer Giovanni Battista (Garrone ?) pictore, pagato il primo ottobre 1593 «p. aver datto principio a dipinzere la chieza et campanili alla forma di capituli fatto dal R.do Clementi»; lavori terminati entro il 2 dicembre successivo come ne fa fede il «co[m]pito pagami[n]to et satisfacioni della pictura fatta alla chieza et ca[m]panile». Allo stesso venne inoltre commissionata anche la manifattura del coro;

- messer Antonio per «la manifatura di in[alzar] la muraglia et incaciar li banchi».

- messer Giovanni Matteo Moranzano «p. aver dipinto tutto all'intorno del dormitorio».

            E’ spiccato l’uso di materiali di recupero: i fusti delle colonne sono alcuni di chiara matrice romana, altri medievali, altri ancora rinascimentali; i capitelli di varie forme e stile sono medievali o cinquecenteschi.

            Su un capitello campeggia lo stemma di qualche famiglia nobile locale non identificata o quantomeno di un podestà, forse recuperato dall’abbattimento della torre gonzaghesca.

            Il chiostro è incernierato in basso da un basamento che corre a filo del plinto delle colonne e che limita l’accesso all’area claustrale, un tempo giardino con pozzo e in seguito piazzale ludico per le scolaresche, quantomeno sino a qualche anno fa; in alto invece vi è un fascione marcapiano, al di sopra degli archi a tutto sesto, che divideva in origine il portico dai dormitori.

            Nel 1596 il convento era già attivo e operante

            La chiesa addossata è un austero edificio a una sola navata con abside semicircolare affiancata da uno svelto campanile con cupola ottagonale in un giusto equilibrio di proporzioni.    

            Nel 1658 a cura del priore Agostino Fera da Livorno la chiesa venne arricchita di stucchi barocchi che pur abbellendone il decoro occultarono purtroppo la parte pittorica originale; un lacerto di affresco pare riaffiorare nella volta della quarta cappella di destra.

            Superata la bufera napoleonica, dispersa la maggior parte dei quadri e officiata per un breve periodo dagli Oblati di Maria Vergine, dal 1844 al 1858, la chiesa oggi si presenta scarna e spoglia.     Cattura l’attenzione la tavola quattrocentesca del Crocifisso, nella prima cappella a destra, attribuita ad Aimo Volpi genero di Spanzotti, probabile parte integrante di un polittico di provenienza ignota, certamente non del patrimonio della chiesa, fatta eccezione del possibile polittico un tempo nella seconda cappella. Se così fosse si potrebbe ipotizzare l’identificazione della “Vergine Maria e altri attributi” con la “Madonna delle fragole” del medesimo autore, già in San Francesco, chiesa della confraternita omonima accentratrice di tavole e dipinti provenienti dai sequestri napoleonici, e non solo. Un’ipotesi suggestiva che trova similitudine con il polittico di Saluzzo dello stesso Volpi: in tal caso la “Madonna delle Fragole” potrebbe essere il pannello centrale del polittico e il “Crocifisso” la cimasa dello stesso.

            Solo due sono gli altari rimasti: il primo nella seconda cappella ora dedicata a Sant’Anna, con stemma gentilizio in marmo della famiglia Perucca della Rocchetta e quadro settecentesco raffigurante la Presentazione al Tempio di Maria Vergine, mentre il secondo, in posizione diametralmente opposta (settima cappella), è dedicato a San Giuseppe con dipinto ottocentesco di scuola lombarda, raffigurante il “Transito di San Giuseppe”.

            Interessante è pure l'ottocentesca “Pietà” in gesso colorato, nella prima cappella a sinistra (quarta cappella), di squisita fattura. La sacra rappresentazione è ancora oggi oggetto di una tradizionale venerazione popolare.      

            Sull’altare maggiore, in un’apposita nicchia campeggia una bella statua lignea dorata della Vergine Maria venerata come Madonna delle Grazie, titolare della chiesa; potrebbe raffigurare l’antica Madonna della Cintura, che la devozione popolare con il tempo ha confuso sempre più con la Madonna del Rosario.

            Non lo poteva certo supporre il vescovo del Carretto che consacrata la chiesa, l’11 dicembre 1611 con dedica a Maria Clementissima delle Grazie, chiudeva in una cassa di piombo una copia dello strumento di consacrazione deponendola a perenne ricordo, sotto l’altare.

            Oggi la chiesa, aperta tutti giorni ma officiata solo il giorno della festa settembrina e il convento, destinato per più di un secolo a

Scuole elementari e ora sede delle Associazioni livornesi, sono per tutti San Gustin, simbolo di un rione.

                                                   Giovanni Franco Giuliano

CELLA BENEDETTINA DI SANT'ANDREA

Chi siamo

La chiesa di Sant’Andrea appartenne in origine al monastero dei Santi Michele e Genuario in virtù della bolla di papa Eugenio III redatta in Ferentino il 18 maggio 1151 e diretta all'abbate Costantino: ecclesiam Sancti Andree Liborni cum pertinentiis suis. Risale presumibilmente al secondo quarto del XII secolo, e la tipologia costruttiva, limitatamente alle parti presbiterali ed absidali, giunta integra sino ai giorni nostri ne conferma la datazione.

 

        L'originaria cappella benedettina, orientata e ad aula unica monoabsidata, comprende la parte absidale, il presbiterio e parte della navata dei fedeli, mentre la restante parte di navata, di forma quadrata, più larga e più alta, e il portico antistante, di forma rettangolare suddiviso in due parti con differenti funzionalità, sono chiaramente l'aggiunta ottocentesca, come pure la cripta sotterranea; presenta l'abside e le pareti in acciottolato povero di fiume, o quanto meno con ciottoli alluvionali prelevati in sito e incrostati di fossili di conchiglie, talvolta con tessitura lineare e altre volte intervallato vuoi da coppi e laterizi romani di recupero vuoi da materiale lapideo di varie dimensioni, anch'esso di recupero. Povera quindi nella tipologia dei materiali costruttivi, povertà ancor di più sottolineata dall'assenza totale di fregi e di ornato tipici del periodo fatta eccezione di qualche archetto pensile in ciottoli, sulla parete sud e resti di archetti in cotto nell’abside.

 

        L’abside di forma semicircolare con calotta sferica, coronata da una cornice in cotto a due modanature e rinforzata da due contrafforti, è divisa in tre campiture da quattro lesene. La facciata originaria è purtroppo stata distrutta per consentire l’innesto dell’avancorpo quadrangolare ottocentesco. Vi sono due ingressi laterali, uno nella parete sud e il corrispondente nella parete nord, con architravi a tutto sesto, tamponati nell’ottocento e riportati alla visibilità con l’ultimo restauro: l’esiguità dell’altezza testimonia che il piano di pavimento originale era molto più basso dell’attuale. La semplicità costruttiva rilevata non disdegna comunque una sua particolare eleganza esaltata da un misto di umiltà e severità derivata dall’originaria committenza benedettina.

 

        L’arco che divide l’aula dall’abside è in materiali policromi alternati, arenaria di colore grigio e mattoni scialbati di colore giallo chiaro, tipici delle architetture povere diffuse in area piemontese. Gli affreschi absidali sono presenti solo nella conca e non nel catino perché molto probabilmente sono andati perduti nel tempo, vuoi per le infiltrazioni d'acqua e maggiormente per l'incuria delle manovalanze che hanno operato nel tempo.

 

        Sono rimasti quattro riquadri, posti ad altezze dissimili quasi a rispondere ad un’impostazione gerarchica, raffiguranti nell’ordine da sinistra:

            Santo martire identificabile secondo tradizione con San Pietro martire ovvero il domenicano san Pietro da Verona, riconoscibile dall'iconografica scure sulla testa. E’ visibile sopra la cornice la scritta “mccccxxxiij - hoc opus fecit fieri - Franci[sc]us de mediolano” e nel riquadro la scritta “S. (nome abraso; volutamente!?) martiris”. L’identificazione del Santo affrescato a prima vista è risultato evidente per gli attributi del pugnale nella schiena e della scure sul capo, oltreché della palma del martirio. Meno evidente e assai strano è che un Santo domenicano fosse onorato in una chiesa benedettina; e strano è anche l’abito: benedettino piuttosto che domenicano. Il nome potrebbe essere stato abraso per correggerne l’errore. Per le dissonanze espresse è quindi probabile che il Santo affrescato sia da identificarsi con San Placido, benedettino della prima ora, il principale discepolo di San Benedetto da Norcia con San Mauro. Il viso giovanile del Santo affrescato conferma l’attribuzione di San Placido, fanciullo al seguito di Benedetto e giovane abate nel monastero siciliano di Colanerò; gli attributi avvalorano invece l’ipotesi di San Pietro da Verona.

        Madonna allattante in trono. Alquanto alterato, non ci permette di intravvedere i visi della Vergine e del Bambino perché coperti da uno strato di calce. Molto fine il panneggio del mantello. La Vergine non porta il velo per cui lascia intravedere una fluente chioma di colore castano. Ai lati si scorgono lacerti di candelabra a grottesche animate da creature fantastiche e figure antropomorfe; si intuisce altresì, anche se il tratto è notevolmente affievolito, parte della sinopia originale.

      Crocifissione. Cristo Crocifisso con San Giovanni Evangelista in piedi alla sua sinistra. Gesù nello spasmo dona il suo sangue a redenzione dei peccati; Giovanni, l’apostolo prediletto, piange contrito. Sulla cornice compare la scritta Johannes, di difficile lettura.

      Sant’Andrea apostolo. Santo titolare della chiesa sin dalle origini, è qui proposto in stile tardogotico. Nella cornice vi è una scritta quasi illeggibile che si può interpretare come “S. Andreas martiris”. Il Santo tiene tra le mani un cartiglio con la scritta evangelica “Et in Jesum Christum, Filius ejus unicum, Dominum nostrum”, derivato dalla Expositio symboli di Rufino di Aquileia, in cui all’apostolo Andrea si attribuisce il versetto riportato nell’affresco. La croce astile come attributo conferma la lettura di tradizione occidentale ascrivibile al basso medioevo.

 

        Il ciclo non ha una continuità storica in quanto si alternano affreschi di epoche diverse e come di consuetudine non si conoscono i nomi degli autori. Sicuramente non dovevano essere semplici mestieranti: li si dovrebbe pertanto ricercare nell'ambito dei frescanti operanti per i benedettini nel periodo di maggior fulgore della cappella (secolo XV). In nostro aiuto vi è l’indicazione del committente dell’affresco dello pseudo San Pietro martire, tale Francesco da Milano, al momento non ancora ben individuato, che fa propendere per la scelta di un frescante di cultura prettamente lombarda operante peraltro nella zona a cavallo tra il Vercellese e il Monferrato intorno agli anni trenta del XV secolo: ne fa fede la data 1433. Il Sant’Andrea è sicuramente l’affresco che più degli altri risente delle influenze di confine. Le soluzioni calligrafiche e tardogotiche adottate trovano riscontro nel fare arcaistico di un pittore di tradizione lombarda già impegnato nel novarese, probabile terra d’origine, e nel vercellese. Le cornici del riquadro ripetono nella cromia e nella forma quelle adottate per l’affresco dello pseudo San Pietro martire mentre il volto di Sant’Andrea, pur rovinato per la caduta di parte del substrato d’intonaco, pare di mano di una personalità decisamente più forte.

 

        Curiosità. Gli affreschi presentano segni di numerosi graffiti a partire dalla seconda metà del XV secolo testimonianti il transito e la sosta di pellegrini in marcia verso o al ritorno dall'Urbe. Le date graffite più antiche: 1492 sull'affresco raffigurante lo pseudo San Pietro da Verona e 1509 sull'affresco raffigurante Sant'Andrea, preceduta quest’ultima da un segno tabellionare. Risultano evidenziate alcune particolarità: il disegno graffito di un volatile palustre (airone?) e molti segni di pellegrini (riconoscibili date dal 1535 a tutto il secolo XVI) sull'affresco di San Pietro, mentre sull'affresco di Sant'Andrea spicca la firma graffita di un Ludovichus Lucy, pellegrino nordico, posta poco sopra la data del 1509, e un po’ più in alto la scritta: 1555 die 25 decembris passo. Non si notano graffiti antichi nei riquadri della Madonna allattante e nel Cristo crocifisso probabilmente per timore reverenziale dei graffitari che han voluto lasciare il segno della loro presenza solo sulle effigi dei Santi.

 

        L'unico altare è munito di arredi settecenteschi e di un interessante paliotto monolitico su fondo nero che porta la data del 1738. E’ opera dell'intelvese Francesco Solari con il supporto della sua bottega e raffigura nel riquadro centrale la Madonna del Carmine con il Bambino seduta su di un grappolo di nuvole, mentre negli spazi laterali vi sono due canestri con fiori a mazzo ed uccelli.

                                                  Giovanni Franco Giuliano

chiesa dei Santi Pietro e Paolo della confraternita dei Santi Apostoli

L'attuale chiesa dei Ss. Pietro e Paolo fu edificata nel primo quarto del 1700 in sostituzione di un oratorio medievale fatiscente già proprio della Confraternita degli Apostoli e fu sostanzialmente restaurata nel 1942 per iniziativa di Don Francesco Vaccarino e dei priori con l'ausilio delle offerte dei cittadini. In occasione dei restauri l'interno fu decorato dal pittore Giovanni Capriolo Vercelli.

        L'interno è ad aula unica con altare maggiore e due altari laterali: il primo in cornu evangelii è dedicato a Sant'Aventino a cui nel 1745 fu legata una compagnia laicale femminile intestata a Santa Margherita da Cortona; il secondo è dedicato a San Bovone, anche se il culto è riservato a San Defendente. A lato dell'altare negli anni quaranta del secolo scorso è stata impiantata una copia della grotta lourdiana molto frequentata a titolo devozionale.

         Nella parte absidale trova posto uno splendido coro confraternitale con soprastante un'interessante tela della Coena Domini; nella controfacciata è posizionato, sulla balconata, l'organo Ramasco del 1854.

        La facciata è in stile tardo barocco divisa su tre piani a scalare; in essa spicca il portone d'ingresso, sovrastato da un medaglione raffigurante i Santi Pietro e Paolo (Capriolo, 1942) mentre un elegante finestrone movimenta il secondo piano; il terzo piano più ridotto è completato da un sinuoso timpano curvilineo.

                                                Giovanni Franco Giuliano

chiesa di San Michele e dei Santi Angeli Custodi

dell'arciconfraternita della SS. Trinità

La chiesa di San Michele notoriamente da tutti conosciuta come chiesa della SS. Trinità è situata in piazza Fratelli Garrone ed è separata dalla Chiesa Parrocchiale da uno stretto passaggio.

                  Fu eretta nelle seconda metà del Cinquecento e si ha una prima notizia dalla relazione di visita pastorale del vescovo di Casale mons. Ambrogio Aldegatto (Aldegatti) avvenuta il 1° luglio 1568;

                  La storiografia locale intanto registra l'autorevole visita a Livorno Ferraris di san Carlo Borromeo; visita non ufficialmente accertata che ha dato modo a diverse controversie d'interpretazione favorendo polemiche letterarie locali. A tal proposito il Nicolina, storico locale del XVIII secolo, trattando della chiesa dell'arciconfraternita livornese della SS. Trinità, riportò: «Evvi pure un altare che pria dedicato a S. Michele doppo il passaggio del Cardinale S. Carlo Boromeo (1578), che su di esso celebrò pernottando pure in livorno in una camera che d'allora in poi chiamasi di S. Carlo, ora ha il titolo di S. Carlo la cui festa ivi ancora si celebra».

                  Nel 1584 mons. Carlo Montiglio arcivescovo di Amalfi e vescovo di Viterbo nella sua visita apostolica conferma l'aggregazione all'Arciconfraternita romana della SS. Trinità invitando i confratelli, che portavano il sacco rosso, a seguirne le regole.

                  Nel 1625 vengo sottoscritte convenzioni tra il prete Francesco Ferrari, futuro prevosto (dal 1631) della Comunità livornese, e il mastro da muro Francesco Caligari di Lugano per rinnovare interamente la chiesa con costruzione delle muraglie laterali, la posa delle colonne sorreggenti la cupola e il tetto competente.

                  L'interno è ad aula unica quadrata divisa in tre navate da due colonne in pietra per lato con due altari frontali nelle navate piccole, il primo in cornu evangelii dedicato all'Annunciazione e il secondo in cornu epistolae dedicato a San Carlo, entrambi con ancone lignee a colonne tortili con tele di buona fattura; il presbiterio è soprelevato di tre gradini con l'altare maggiore in scagliola marmorizzata e capiente abside pentagonale dove trova posto il coro ligneo; nel riquadro centrale dell'abside campeggia una tavola del 1606 raffigurante la SS. Trinità, i confratelli e i signori di Montiglio, opera del livornese Agostino Parolio. Le quattro colonne sorreggono una cupola con vele affrescate con figure di Padri della Chiesa; la cupola è sormontata da un tiburio ottagonale chiuso in sommità da una lanterna. Sull’ingresso, all’interno, vi è una balconata in legno in cui aveva sede la cantoria e l'organo.

                  La facciata è tipica dell'architettura manieristica del tempo; è delimitata da due lesene che poggiano su un alto basamento con zoccolo in pietra di Luserna che corre lungo tutta l'estensione della fronte. Sull'architrave di coronamento è situato l'attico sul cui cornicione sono situati sei candelabri in terracotta (quattro grandi e due piccoli) e una croce metallica centrale. Il timpano triangolare sporgente dal frontone è sorretto da quattro colonne con capitello ionico mentre il portale, intercluso tra le colonne centrali, presenta un timpano curvilineo spezzato sormontato da un cartiglio contenente l'affresco raffigurante il famoso “incontro della conchiglia” (Sant'Agostino e il Bambino).

                  La porta principale è probabile opera di artigiani locali anche se è documentata la presenza di Giovanni Domenico Cavagnetto di Viverone, scultore in legno, autore dei due altari barocchi commissionati nel 1686 (la predella porta la data scolpita del 22 aprile 1686) lavori indorati da Giovanni Maria e Giovanni Battista de Fabianis di Livorno Ferraris (quietanza del 1696).

                                                   Giovanni Franco Giuliano